Elogio della violenza
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A qualcuno abituato alle calme sedute dell'Accademia, ed alle smorfiose gentilezze delle polemiche erudite, il nostro linguaggio sembra violento; il che — critica veramente nuova ed arcioriginale — sarebbe mostra di sforzo e non di forza, dì debolezza non di vigoria. Ci permettiamo di osservare che questi son termini ambigui e relativi; la forza a Brobdingnag è sforzo a Lilliput; la debolezza d'un atleta è vigoria in un tisico. Le persone che non hanno i polmoni abbastanza grandi ansimano al nostro passo; ma dovremmo noi dire che andiamo di corsa? Creda un'egregia persona che noi siamo sereni e tranquilli, cha passeggiamo senza fretta, e non ci mettiamo i trampoli per correre dietro alle bestialità positiviste, nè sudiamo punto per punzecchiare gli ippopotami professionali.
La cosidetta gentilezza, il silenzio, il garbo, sono troppo spesso sinonimi di vigliaccheria, di mancanza di argomenti, di fiacchezza di animo. La mancanza di passione si traveste in olimpismo; la nullaggine in tranquillità; e sotto la statua greca, o l'abatino dell'800, c'è spesso il formulismo che non fa male a nessuno, o la anonima maldicenza di salotto e di chiesola.
La violenza che usiamo non è per odio degli altri, quanto per amore di noi; un epiteto ingiurioso non è tanto un colpo al nemico, quanto un miglioramento del nostro animo; una polemica che eccita le facoltà agonistiche, e separa profondamente dall'avversario, serve come esercizio ginnastico delle membra intellettuali e come fossato profondo che scaviamo intorno alla fortezza dell'Io. Separarsi, coltivare la solitudine, amare la guerra, sono questi gli scopi d'ogni persona che voglia sentire profondamente sè stessa. La violenza è dunque una cura morale, un esercizio che rinforza, un imperativo categorico di tutti quelli che aman sè stessi.
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◄ Giuseppe Prezzolini